martedì 17 settembre 2019

Forever di Bob Dylan



Forever young
Possa Dio benedirti e proteggerti sempre.
Possano tutti i tuoi desideri diventare realtà.
Che tu possa sempre fare qualcosa per gli altri
E lasciare che gli altri facciano qualcosa per te.
Che tu possa costruire una scala verso le stelle
E salirne ogni gradino.
Che tu possa restare giovane per sempre…
Che tu possa crescere e diventare un uomo giusto,
Che tu crescere per essere sincero.
Che tu possa conoscere sempre la verità
E vedere le luci che ti circondano.
Che tu possa essere sempre coraggioso,
Stare eretto e forte.
Che tu possa restare giovane per sempre…
Possano le tue mani essere sempre occupate.
Possa il tuo piede essere sempre svelto.
Che tu possa avere delle solide fondamenta
Quando i venti del cambiamento soffieranno.
Possa il tuo cuore essere sempre gioioso.
Possa la tua canzone essere sempre cantata.
Che tu possa restare giovane per sempre…

Marco Masini


Blogger, Cellulare, Ufficio, Business, Notebook

“La comunicazione oggi è quasi totalmente digitale quindi va assolutamente vissuta e compresa. Bisogna sapere usare questi nuovi strumenti senza permettere che siano loro ad usare te e senza scollegarsi troppo dalla realtà. ” 
MARCO MASINI



FREDERICK FORSYTH



“Prima di accettare la nomina a magistrato era stata preside di una grande scuola femminile e nel corso degli anni aveva sentito tutte le scuse note alla razza umana.”
FREDERICK FORSYTH





ARTHUR SCHOPENHAUER

“Gli amici si dicono sinceri, ma in realtà sinceri sono i nemici. Si dovrebbe quindi utilizzare il biasimo di questi ultimi, come una medicina amara, per conoscere se stessi.”
ARTHUR SCHOPENHAUER




Amici, Cane, Animale Domestico, Vestito Donna, Tramonto

HONORÉ DE BALZAC

“Per giudicare un uomo bisogna almeno conoscere il segreto del suo pensiero, delle sue sventure, delle sue emozioni.”

 HONORÉ DE BALZAC



Tramonto, Papavero, Retroilluminazione, Fiori, Campo




Lord Byron

“Il cane possiede la bellezza senza la vanità.
La forza senza l'insolenza.
Il coraggio senza la ferocia.
E tutte le virtù dell'uomo senza i suoi vizi.”

LORD BYRON






Border Collie, Cane, Vai, Nell'Estate Del, Natura

lunedì 16 settembre 2019

Jim Morrison

Smetterò di amarti solo quando un pittore sordo riuscirà a dipingere il rumore di un petalo di rosa cadere su un pavimento di cristallo di un castello mai esistito.
Jim Morrison 1969.JPG
Di Elektra Records - eBay itemphoto frontphoto back

LA SERA DEL DÌ DI FESTA di Giacomo Leopardi

LA SERA DEL DÌ DI FESTA

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t'accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nè pensi
Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m'affaccio,
E l'antica natura onnipossente,
Che mi fece all'affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da' trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già, ch'io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell'artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov'è il suono
Di que' popoli antichi? or dov'è il grido
De' nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
Che n'andò per la terra e l'oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s'aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s'udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.
Gattino, Grey, Cuore, Cat, Natale, Pet, Gatto Giovane

Meritatamente di Ugo Foscolo

Meritamente, però ch'io potei
abbandonarti, or grido alle frementi
onde che batton l'alpi, e i pianti miei
sperdono sordi del Tirreno i venti.
Sperai, poiché mi han tratto uomini e Dei
in lungo esilio fra spergiure genti
dal bel paese ove meni sì rei,
me sospirando, i tuoi giorni fiorenti,
sperai che il tempo, e i duri casi, e queste
rupi ch'io varco anelando, e le eterne
ov'io qual fiera dormo atre foreste,
sarien ristoro al mio cor sanguinente;
ahi vota speme! Amor fra l'ombre e inferne
seguirammi immortale, onnipotente.

domenica 15 settembre 2019

Il Calamaio di Gianni Rodari

Che belle parole
se si potesse scrivere
con un raggio di sole.

Che parole d’argento
se si potesse scrivere
con un filo di vento.

Ma in fondo al calamaio
c’è un tesoro nascosto
e chi lo pesca
scriverà parole d’oro
col più nero inchiostro.

Niente che sia d'oro dura di Robert Frost

In Natura il primo verde è dorato,
e subito svanisce.
Il primo germoglio è un fiore
che dura solo un’ora.
Poi a foglia segue foglia.
Come l’Eden affondò nel dolore
Così oggi affonda l’Aurora.
Niente che sia d’oro dura.

Mare di Giovanni Pascoli

M'affaccio alla finestra, e vedo il mare:
vanno le stelle, tremolano l'onde.
Vedo stelle passare, onde passare:
un guizzo chiama, un palpito risponde.

Ecco sospira l'acqua, alita il vento:
sul mare è apparso un bel ponte d'argento.

Ponte gettato sui laghi sereni,
per chi dunque sei fatto e dove meni?

sabato 14 settembre 2019

SE di RUDYARD KIPLING, Rewards and Fairies, 1910.

Se riesci a tenere la testa a posto quando tutti intorno a te
l'hanno persa e danno la colpa a te,
se puoi avere fiducia in te stesso quando tutti dubitano di te,
ma prendi in considerazione anche i loro dubbi.
Se sai aspettare senza stancarti dell'attesa,
o essendo calunniato, non ricambiare con calunnie,
o essendo odiato, non dare spazio all'odio,
senza tuttavia sembrare troppo buono, né parlare troppo da saggio;
Se puoi sognare, senza fare dei sogni i tuoi padroni;
se puoi pensare, senza fare dei pensieri il tuo scopo,
se sai incontrarti con il Successo e la Sconfitta
e trattare questi due impostori allo stesso modo.
Se riesci a sopportare di sentire la verità che hai detto
Distorta da imbroglioni che ne fanno una trappola per gli ingenui,
o guardare le cose per le quali hai dato la vita, distrutte,
e piegarti a ricostruirle con strumenti usurati.
Se puoi fare un solo mucchio di tutte le tue fortune
e rischiarlo in un unico lancio di una monetina,
e perdere, e ricominciare daccapo
senza mai fiatare una parola sulla tua perdita.
Se sai costringere il tuo cuore, nervi, e polsi
a sorreggerti anche quando sono esausti,
e così resistere quando in te non c'è più nulla

quando in te non c'è più nulla
tranne la Volontà che dice loro: "Resistete!"
Se riesci a parlare alle folle e conservare la tua virtù,
o passeggiare con i Re, senza perdere il contatto con la gente comune,
se non possono ferirti né i nemici né gli amici affettuosi,
se per te ogni persona conta, ma nessuno troppo.
Se riesci a riempire ogni inesorabile minuto
dando valore a ognuno dei sessanta secondi,
tua è la Terra e tutto ciò che contiene,
e - cosa più importante - sarai un Uomo, figlio mio!

Lettera al figlio
Joseph Rudyard Kipling Premio Nobel per la letteratura 1907

Gaetano Braga compositore

Gaetano Braga by Étienne Carjat (photograph).jpg
Di Étienne Carjat - Bibliothèque nationale de France, Pubblico dominio, Collegamento

giovedì 12 settembre 2019

Deh qual mi scorre, oh Dio, di vena in vena Francesco Domenico Clementi

Deh qual mi scorre, oh Dio! di vena in vena
     Freddo timore, allorch’io penso al giorno
     Giorno per me, sol di vergogna e scorno,
     In cui il Giusto fia sicuro appena.
5Talchè mia mente di quel dì ripiena
     L’alme più elette sbigottite intorno
     Vede al Giudice irato, e il fier soggiorno
     Cercar d’atroce non dovuta pena.
Sol per celarsi a lui, ch’all’ira è volto.
     10Misera e vede ancor gli Angeli suoi
     Coll’ali per timor coprirsi il volto.
Se tanto temeran gli sdegni tuoi
     Quelli, che in Cielo hai già, Signore, accolto,
     Che fia quel giorno, ahimè! che fia di noi?


L'alba -Giovanni Pascoli

L’ALBA

i

Allor che Rosa dalle bianche braccia
aprì le imposte, piccola e lontana
3dal cielo la garrì la cappellaccia.

Dalla Pieve a’ Cipressi la campana
sonava l’alba: in alto, sul Mongiglio
6erano bianchi bioccoli di lana.

Raspava una gallina sopra il ciglio
d’un fosso. Po s’alzò, scosse la brina,
9scodinzolando, con uno sbadiglio.

Ed al frizzar dell’aria mattutina,
nel comun letto si svegliò Viola,
12all’improvviso, e mormorò: “Rosina!

Rosina!„ E già taceva la chiesuola
lasciando udire un canto di fringuello,
15e, per i campi ombrati di viola,

lo squillar de’ pennati sul marrello.
[p. 6 modifica]

ii

E Rosa in tanto, al davanzale, i semi
coglieva d’una spiga d’amorino,
19e mondava dal secco i crisantemi.

Si sfumò d’oro un bioccolo argentino:
oh! una mandra, tutta oro, tranquilla
22pasceva in alto in mezzo al cilestrino.

Corsero come guizzi di pupilla;
tutto via via razzava: un fil di paglia
25nel concio nero, un ciottolo, una stilla.

Ma il sole entrava come in una maglia
sottil di nubi d’un color d’opale,
28e traspariva dalla nuvolaglia.

Rosa si ravviava al davanzale:
or luce, or ombra si sentìa sul viso;
31chè il sol montando per il cielo a scale

appariva e spariva all’improvviso.

iii

Appariva e spariva; e venìa meno
la terra all’occhio, e poi, come in un fiato,
35tutto balzava su verso il sereno.
[p. 7 modifica]

A monte, a mare, ella guardò; guardato
ch’ebbe, ella disse (udiva sui marrelli
38a quando a quando battere il pennato):

“Aria a scalelli, acqua a pozzatelli„

mercoledì 11 settembre 2019

Il Glicine di Pier Paolo Pasolini

Il glicine
E intanto era aprile,
e il glicine era qui, a rifiorire.
Prepotente, feroce
rinasci, e di colpo, in una notte, copri
un’intera parete appena alzata, il muro
principesco di un’ocra
screpolato al nuovo sole che lo cuoce.
E basti tu, col tuo profumo, oscuro,
caduco rampicante, a farmi puro
di storia come un verme, come un monaco:
e non lo voglio, mi rivolto – arido
nella mia nuova rabbia,
a puntellare lo scrostato intonaco
del mio nuovo edificio.
Tu che brutale ritorni,
non ringiovanito, ma addirittura rinato,
furia della natura, dolcissima,
mi stronchi uomo già stroncato
da una serie di miserabili giorni,
ti sporgi sopra i miei riaperti abissi,
profumi vergine sul mio eclissi,
antica sensualità.

lunedì 9 settembre 2019

In riva al mare- Giosuè Carducci

In riva al mare
Tirreno, anche il mio petto è un mar profondo,
E di tempeste, o grande, a te non cede:
L’anima mia rugge ne’ flutti, e a tondo
Suoi brevi lidi e il picciol cielo fiede.
Tra le sucide schiume anche dal fondo
Stride la rena: e qua e là si vede
Qualche cetaceo stupido ed immondo
Boccheggiar ritto dietro immonde prede.
La ragion de le sue vedette algenti
Contempla e addita e conta ad una ad una
Onde belve ed arene invan furenti:
Come su questa solitaria duna
L’ire tue negre e gli autunnali venti
Inutil lampa illumina la luna.


Salvatore Quasimodo – S’ode ancora il mare

Già da più notti s’ode ancora il mare,
lieve, su e giù, lungo le sabbie lisce.
Eco d’una voce chiusa nella mente
che risale dal tempo; ed anche questo
lamento assiduo di gabbiani: forse
d’uccelli delle torri, che l’aprile
sospinge verso la pianura. Già
m’eri vicina tu con quella voce;
ed io vorrei che pure a te venisse,
ora, di me un’eco di memoria,
come quel buio murmure di mare.

Charles Baudelaire – L’uomo e il mare

Uomo libero, tu amerai sempre il mare!
Il mare è il tuo specchio; contempli la tua anima
Nello svolgersi infinito della sua onda,
E il tuo spirito non è un abisso meno amaro.
 
Ti piace tuffarti nel seno della tua immagine;
L’accarezzi con gli occhi e con le braccia e il tuo cuore
Si distrae a volte dal suo battito
Al rumore di questa distesa indomita e selvaggia.
 
Siete entrambi tenebrosi e discreti:
Uomo, nulla ha mai sondato il fondo dei tuoi abissi,
O mare, nulla conosce le tue intime ricchezze
Tanto siete gelosi di conservare i vostri segreti!
 
E tuttavia ecco che da innumerevoli secoli
Vi combattete senza pietà né rimorsi,
Talmente amate la carneficina e la morte,
O eterni rivali, o fratelli implacabili!

domenica 8 settembre 2019

Racconto breve :Luigi Pirandello – Nel segno

Come seppe che nella mattinata gli studenti di medicina sarebbero ritornati all’ospedale, Raffaella Òsimo pregò la caposala d’introdurla nella sala del primario, dove si tenevano le lezioni di semejotica.
La capo-sala la guardò male.
– Vuoi farti vedere dagli studenti?
– Sì, per favore; prendete me.
– Ma lo sai che sembri una lucertola?
– Lo so. Non me n’importa! Prendete me.
– Ma guarda un po’ che sfacciata. E che ti figuri che ti faranno là dentro?
– Come a Nannina, – rispose la Òsimo. – No?
Nannina, sua vicina di letto, uscita il giorno avanti dall’ospedale, le aveva mostrato, appena rientrata in corsia dopo la lezione là nella sala in fondo, il corpo tutto segnato come una carta geografica; segnati i polmoni, il cuore, il fegato, la milza, col lapis dermografico.
– E ci vuoi andare? – concluse quella. – Per me, ti servo. Ma bada che il segno non te lo levi più per molti giorni, neppure col sapone.
La Òsimo alzò le spalle e disse sorridendo:
– Voi portatemi, e non ve ne curate.
Le era tornato in volto un po’ di colore; ma era ancor tanto magra; tutta occhi e tutta capelli. Gli occhi però, neri, bellissimi, le brillavano di nuovo, acuti. E in quel lettuccio il suo corpo di ragazzina, minuscolo, non pareva nemmeno, tra le pieghe delle coperte.
Per quella capo-sala, come per tutte le suore infermiere, era una vecchia conoscenza, Raffaella Òsimo.
Già due altre volte era stata lì, all’ospedale. La prima volta, per… – eh, benedette ragazze! si lasciano infinocchiare, e poi, chi ci va di mezzo? una povera creaturina innocente, che va a finire all’ospizio dei trovatelli.
La Òsimo, a dir vero, lo aveva scontato amaramente anche lei, il suo fallo; due mesi circa dopo il parto, era ritornata all’ospedale più di là che di qua, con tre pasticche di sublimato in corpo. Ora c’era per l’anemia, da un mese. A forza d’iniezioni di ferro s’era già rimessa, e tra pochi giorni sarebbe uscita dall’ospedale.
Le volevano bene in quella corsia e avevano carità e sofferenza di lei per la timida e sorridente grazia della sua bontà pur così sconsolata. Ma anche la disperazione in lei non si manifestava né con fosche maniere né con lacrime.
Aveva detto sorridendo, la prima volta, che non le restava ormai più altro che morire. Vittima come era, però, d’una sorte comune a troppe ragazze, non aveva destato né una particolare pietà né un particolar timore per quell’oscura minaccia. Si sa che tutte le sedotte e le tradite minacciano il suicidio: non bisogna darsi a credere tante cose.
Raffaella Òsimo, però, lo aveva detto e lo aveva fatto.
Invano, allora, le buone suore assistenti s’eran provate a confortarla con la fede; ella aveva fatto, come faceva anche adesso; ascoltava attenta, sorrideva, diceva di sì; ma si capiva che il groppo che le stringeva il cuore non si scioglieva né s’allentava per quelle esortazioni.
Nessuna cosa più la invogliava a sperare nella vita: riconosceva che s’era illusa, che il vero inganno le era venuto dall’inesperienza, dall’appassionata e credula sua natura, più che dal giovine a cui s’era abbandonata e che non avrebbe potuto mai esser suo.
Ma rassegnarsi, no, non poteva.
Che se per gli altri la sua storia non aveva nulla di particolare, non era per ciò men dolorosa per lei. Aveva sofferto tanto! Prima lo strazio di vedersi ucciso il padre, proditoriamente; poi, la caduta irreparabile di tutte le sue aspirazioni.
Era una povera cucitrice, adesso, tradita come tante altre, abbandonata come tante altre; ma un giorno… Sì, anche le altre, è vero, dicevano allo stesso modo: – Ma un giorno… –e mentivano; perché ai miseri, ai vinti, sorge spontaneo dal petto oppresso il bisogno di mentire.
Ma lei non mentiva.
Giovinetta ancora, lei, certamente avrebbe preso la patente di maestra, se il padre, che la manteneva con tanto amore agli studii, non le fosse venuto a mancare così di colpo, laggiù, in Calabria, assassinato, non per odio diretto, ma durante le elezioni politiche, per mano d’un sicario rimasto ignoto, pagato senza dubbio dalla fazione avversaria del barone Barni, di cui egli era segretario zelante e fedele.
Eletto deputato, il Barni, sapendola anche orfana di madre e sola, per farsi bello d’un atto di carità di fronte agli elettori, la aveva accolta in casa.
Così era venuta a Roma, in uno stato incerto: la trattavano come se fosse della famiglia, ma figurava intanto come istitutrice dei figliuoli più piccoli del barone e anche un po’ come dama di compagnia della baronessa: senza stipendio, beninteso.
Lei lavorava: il Barni si prendeva il merito della carità.
Ma che glien’importava, allora? Lavorava con tutto il cuore, per acquistarsi la benevolenza patema di chi la ospitava, con una speranza segreta: che quelle sue cure amorose, cioè, quei suoi servizi senz’alcun compenso, dopo il sacrificio del padre, valessero a vincere l’opposizione che forse il barone avrebbe fatta al figliuolo maggiore, Riccardo, quando questi, come già le aveva promesso, gli avrebbe dichiarato l’amore che sentiva per lei. Oh, era sicurissimo Riccardo che il padre avrebbe condisceso di buona voglia; ma aveva appena diciannove anni, era ancora studente di liceo; non si sentiva il coraggio di far quella dichiarazione ai genitori: meglio aspettare qualche anno.
Ora, aspettando… Ma lì, possibile? nella stessa casa, sempre vicini, fra tante lusinghe, dopo tante promesse, con tanti giuramenti…
La passione la aveva accecata.
Quando, alla fine, il fallo non s’era più potuto nascondere, cacciata via! Sì, proprio cacciata via, poteva dire, senz’alcuna misericordia, senz’alcun riguardo neanche per il suo stato. Il Barni aveva scritto a una vecchia zia di lei, perché fosse venuta subito a riprendersela e a portarsela via, laggiù in Calabria, promettendo un assegno; ma la zia aveva scongiurato il barone di aspettare almeno che la nipote si fosse prima liberata a Roma, per non affrontar lo scandalo in un piccolo paese; e il Barni’ aveva ceduto, ma a patto che il figliuolo non ne avesse saputo nulla e le avesse credute già fuori di Roma. Dopo il parto, però, ella non era voluta tornare in Calabria; il barone allora, su tutte le furie, aveva minacciato di togliere l’assegno; e lo aveva tolto difatti, dopo il tentato suicidio. Riccardo era partito per Firenze; lei, salvata per miracolo, s’era messa a far la giovine di sarta per mantenere sé e la zia. Era passato un anno; Riccardo era ritornato a Roma; ma ella non aveva nemmen tentato di rivederlo. Fallitole il proposito violento, s’era fitto in capo di lasciarsi morire a poco a poco. La zia, un bel giorno, aveva pèrduto la pazienza e se n’era ritornata in Calabria. Un mese addietro, durante uno svenimento in casa della sarta presso la quale lavorava, era stata condotta lì all’ospedale, e c’era rimasta per curarsi dell’anemia.
L’altro giorno, intanto, dal suo lettino, Raffaella Òsimo aveva veduto passare per la corsia gli studenti di medicina che facevano il corso di semejotica, e fra questi studenti aveva riveduto, dopo circa due anni, Riccardo, con accanto una giovinetta, che doveva essere una studentessa anche lei, bionda, bella, straniera all’aspetto: e dal modo con cui la guardava… – ah, Raffaella non poteva ingannarsi! – appariva chiaramente che n’era innamorato. E come gli sorrideva lei, pendendo quasi dagli occhi di lui…
Li aveva seguiti con lo sguardo fino in fondo alla corsia; poi era rimasta con gli occhi sbarrati, levata su un gomito. Nannina, la sua vicina di letto, s’era messa a ridere.
– Che hai veduto?
– Nulla…
E aveva sorriso anche lei, riabbandonandosi sul letto, perché il cuore le batteva come volesse balzarle dal seno.
Era venuta poi la capo-sala a invitare Nannina a vestirsi, perché il professore la voleva di là per la lezione agli studenti.
– E che debbono farmi? – aveva domandato Nannina.
– Ti mangeranno! Che vuoi che ti facciano? – le aveva risposto quella. – Tocca a te; toccherà anche alle altre. Tanto, tu domani andrai via.
Aveva tremato, dapprima, Raffaella al pensiero che potesse toccare anche a lei. Ah, così caduta, così derelitta, come ricomparirgli davanti, lì? Per certi falli, quando la bellezza sia sparita, né compatimento, né commiserazione.
Certo i compagni di Riccardo, vedendola così misera, lo avrebbero deriso:
– Come! Con quella lucertolina t’eri messo?
Non sarebbe stata una vendetta. Né lei, del resto, voleva vendicarsi.
Quando però, dopo circa mezz’ora, Nannina era ritornata al suo lettuccio e le aveva spiegato che cosa le avevano fatto di là e mostrato il corpo tutto segnato, Raffaella improvvisamente aveva cangiato idea; ed ecco, fremeva d’impazienza, ora, aspettando l’arrivo degli studenti.
Giunsero, alla fine, verso le dieci. C’era Riccardo e, come l’altro giorno, accanto alla studentessa straniera. Si guardavano e si sorridevano.
– Mi vesto? – domandò Raffaella alla capo-sala, balzando a sedere tutt’accesa sul letto, appena quelli entrarono nella sala in fondo alla corsia.
– Ih che prescia! giù, – le impose la capo-sala, – aspetta prima che il professore dia l’ordine.
Ma Raffaella, come se colei le avesse detto: «Vestiti!» prese a vestirsi di nascosto.
Era già bella e pronta sotto le coperte, quando la capo-sala venne a chiamarla.
Pallida come una morta, convulsa in tutto il misero corpicino, sorridente, con gli occhi sfavillanti e i capelli che le cascavano da tutte le parti, entrò nella sala.
Riccardo Barni parlava con la giovine studentessa e non s’accorse in prima di lei, che – smarrita fra tanti giovani – lo cercava con gli occhi e non sentiva il medico primario, libero docente di semejotica, che le diceva:
– Qua, qua, figliuola!
Alla voce del professore, il Barni si voltò e vide Raffaella che lo fissava, avvampata ora in volto: allibì; diventò pallidissimo; gli s’intorbidò la vista.
– Insomma! – gridò il professore. – Qua!
Raffaella sentì ridere tutti gli studenti e si riscosse vie più smarrita; vide che Riccardo si ritraeva in fondo alla sala, verso la finestra; si guardò attorno; sorrise nervosamente e domandò:
– Che debbo fare?
– Qua, qua, qua, stendetevi qua! – le ordinò il professore che stava a capo d’un tavolino, su cui era stesa una specie d’imbottita.
– Eccomi, sissignore! – s’affrettò a ubbidire Raffaella; ma siccome stentava a tirarsi su a sedere sul tavolino, sorrise di nuovo e disse: – Non ci arrivo…
Uno studente la ajutò a montare. Seduta, prima di stendersi, guardò il professore, ch’era un bell’uomo, alto di statura, tutto raso, con gli occhiali d’oro, e gli disse, indicando la studentessa straniera:
– Se me lo facesse disegnare da lei…
Nuovo scoppio di risa degli studenti. Sorrise anche il professore:
– Perché? Ti vergogni?
– Nossignore. Ma sarei più contenta.
E si volse a guardare verso la finestra, là in fondo, ove Riccardo s’era rincantucciato, con le spalle volte alla sala.
La bionda studentessa seguì istintivamente quello sguardo. Aveva già notato l’improvviso turbamento del Barni. Ora s’accorse ch’egli s’era ritirato là, e si turbò anche lei vivamente.
Ma il professore la chiamò:
– Su, dunque, a lei, signorina Orlitz. Contentiamo la paziente.
Raffaella si stese sul tavolino e guardò la studentessa che si sollevava la veletta su la fronte. Ah, com’era bella, bianca e delicata, con gli occhi celesti, dolci dolci. Ecco, si liberava della mantella, prendeva il lapis dermografico che il professore le porgeva e si chinava su lei per scoprirle, con mani non ben sicure, il seno.
Raffaella Òsimo serrò gli occhi per vergogna di quel suo misero seno, esposto agli sguardi di tanti giovani, là, attorno al tavolino. Sentì posarsi una mano fredda sul cuore.
– Batte troppo… – disse subito, con spiccato accento esotico, la signorina, ritraendo la mano.
– Quant’è che siete all’ospedale? – domandò il professore.
Raffaella rispose, senza schiuder gli occhi; ma con le palpebre che le fervevano, nervosamente:
– Trentadue giorni. Son quasi guarita.
– Senta se c’è soffio anemico, – riprese il professore, porgendo alla studentessa lo stetoscopio.
Raffaella sentì sul seno il freddo dello strumento; poi la voce della signorina che diceva:
– Soffio, no… Palpitazione, troppo.
– Andiamo, faccia la percussione, – ingiunse allora il professore.
Ai primi picchi, Raffaella piegò da un lato la testa, strinse i denti e si provò ad aprire gli occhi; li richiuse subito, facendo un violento sforzo su se stessa per contenersi. Di tratto in tratto, come la studentessa sospendeva un po’ la percussione per segnare sotto il dito medio una breve lineetta col lapis intinto in un bicchier d’acqua che uno studente lì presso reggeva, ella soffiava penosamente per le nari il fiato trattenuto
Quanto durò quel supplizio? Ed egli era sempre là, presso la finestra… Perché non lo richiamava il professore? perché non lo invitava a vedere il cuore di lei, che la sua bionda compagna tracciava man mano su quello squallido seno, così ridotto per lui?
Ecco, finalmente la percussione era finita. Ora la studentessa congiungeva tutte le lineette per compire il disegno. Raffaella fu tentata di guardarselo, quel suo cuore, lì disegnato; ma, improvvisamente, non potè più reggere; scoppiò in singhiozzi.
Il professore, seccato, la rimandò nella corsia, ordinando alla capo-sala d’introdurre un’altra inferma meno isterica e meno scema di quella.
La Òsimo sopportò in pace i rimbrotti della capo-sala e tornò al suo lettuccio ad aspettare, tutta tremante, che gli studenti uscissero dalla sala.
La avrebbe egli cercata con gli occhi, almeno, attraversando la corsia? Ma no, no: che importava più a lei, ormai? Non avrebbe alzato nemmeno il capo per farsi scorgere. Egli non doveva più vederla. Le bastava di avergli fatto conoscere come s’era ridotta per lui.
Prese con le mani tremanti la rimboccatura del lenzuolo e se la tirò sul volto, come se fosse morta.
Per tre giorni Raffaella Òsimo vigilò con attenta cura che il segno del cuore non le si cancellasse dal seno.
Uscita dall’ospedale, innanzi a un piccolo specchio nella sua povera cameretta, si confisse uno stiletto puntato contro la parete, là, nel bel mezzo del segno che la rivale ignara le aveva tracciato.

Federico Fellini con la moglie Giulietta Masina, protagonista de La strada nei panni di Gelsomina

Federico Fellini con la moglie Giulietta Masina, protagonista de La strada nei panni di Gelsomina
Il film, ricco di poesia, racconta il tenero ma anche turbolento rapporto fra Gelsomina, interpretata da Giulietta Masina, e Zampanò, interpretato da Anthony Quinn, due strampalati artisti di strada che percorrono l'Italia dell'immediato dopoguerra.

Paola Ojetti

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è soprattutto ricordata per la sua attività di traduttrice, iniziata sin da giovanissima con versioni dal francese e dall'inglese di dialoghi di film. Negli anni '30,

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Primo Applauso trasmissione televisiva del 1956

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Di ignoto - Radiocorriere ,p.d.

Il piccolo principe (Le Petit Prince) è un racconto di Antoine de Saint-Exupéry

la dedica

A Leone Werth.

Domando perdono ai bambini di aver dedicato questo libro a una persona grande. Ho una scusa seria: questa persona grande è il migliore amico che abbia al mondo. Ho una seconda scusa: questa persona grande può capire tutto, anche i libri per bambini. E ne ho una terza: questa persona grande abita in Francia, ha fame, ha freddo e ha molto bisogno di essere consolata. E se tutte queste scuse non bastano, dedicherò questo libro al bambino che questa grande persona è stata. Tutti i grandi sono stati bambini una volta. (Ma pochi di essi se ne ricordano.)
Perciò correggo la mia dedica:
A Leone Werth
quando era un bambino»

Fernando Botero

Fernando Botero
Di Roel Wijnants - Flickr, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia

Gato_(Fernando Botero)

Gato (Fernando Botero). CamilleHardy.