Capitolo 3 – La soffitta di Lucia
Clara trascinò il quaderno con sé giù dalla soffitta come si trattasse di una reliquia proibita. Lo tenne stretto al petto, come se potesse proteggerla da qualcosa che non riusciva ancora a nominare. Si sedette al tavolo della cucina, dove la luce del mattino cominciava a filtrare tra le persiane, disegnando righe dorate sulle mattonelle.
Aprì la prima pagina con lentezza, come se temesse che un gesto troppo brusco potesse dissolverne le parole.
“12 luglio. Oggi l’ho visto di nuovo. Era davanti all’altalena, immobile. Sorrideva. Ma non come una persona. Come una presenza che imita un sorriso umano.”
Clara deglutì. Scorse il resto della pagina, poi quella successiva. Le date non erano regolari, e nemmeno la calligrafia. A volte i tratti erano ordinati, misurati. Altre volte nervosi, spezzati, come scritti in fretta, con il fiato corto. Le parole descrivevano piccoli episodi: oggetti spostati di notte, rumori alle scale, un sussurro udito nel sonno. E poi, sempre, lui. Nessun nome. Solo “lui”.
“Dice che mi conosce. Dice che siamo legati da prima che io nascessi. Dice che aspetta. Aspetta me. Ma per cosa?”
Il cuore di Clara martellava. Chiunque fosse quella figura, Lucia lo aveva visto, o creduto di vederlo. E ora… ora c’era lei. Un fiore giallo sul piatto. L’altalena che si muoveva senza vento. La stessa casa.
Quella mattina, Clara uscì a piedi verso il paese. Aveva bisogno di parlare con qualcuno che conoscesse la sua famiglia. Qualcuno che ricordasse Lucia. Al piccolo bar in piazza trovò il signor Nanni, l’uomo più anziano del villaggio, che un tempo era amico del nonno.
“Lucia?” disse l’uomo, piegando il giornale con lentezza. “La zia di tua madre? Sì, certo. Strana ragazza, quella. Sempre sola, parlava poco. Dopo la morte dei suoi genitori, era rimasta qui, da sola, nella casa in cima. Alcuni dicevano che fosse un po’… fragile.”
“Fragile in che senso?” domandò Clara, cercando di nascondere l’urgenza nella voce.
“Dicevano che vedeva cose. Parlava con qualcuno che non c’era. Ma nessuno le ha mai voluto male. Sembrava tranquilla, solo... altrove. Poi, un giorno, se n’è andata. Sparita. Lasciò tutto dietro di sé. E nessuno seppe più nulla.”
Clara tornò a casa con la testa pesante. Quel “sparita” le ronzava in testa. Lucia non era morta lì. Non c’erano né una tomba né una data. Era semplicemente svanita. Come se qualcosa – o qualcuno – l’avesse chiamata via.
Quella sera, tornò in soffitta. Voleva rileggere il quaderno, trovare un indizio, una frase finale. Ma quando aprì la botola, vide che la luce al neon tremolava. Salì piano, ogni scalino un suono secco nel silenzio della casa. Il quaderno era ancora lì, sul baule. Ma accanto, adesso, c’era un’altra cosa.
Una foto.
Clara la prese con mani che tremavano. Ritraeva una ragazza – Lucia – in piedi accanto all’altalena. Ma il dettaglio che la fece gelare fu un’ombra, sullo sfondo. Un’ombra umana, dietro di lei. Ma sfocata. Deformata. Come se fosse stata lì, ma non appartenesse al mondo che la macchina fotografica poteva comprendere.
Girò la foto.
Sul retro, una scritta in stampatello incerto:
“Non ascoltarlo.”
Quella notte, Clara non dormì. Si sedette sull’altalena, guardando il buio davanti a sé. La luna era alta, il vento assente, eppure… di nuovo… la sensazione. Che qualcuno la stesse osservando.
Chiuse gli occhi.
E lo sentì.
Un sussurro, dietro l’orecchio, lieve come un fiato.
“Sei tornata per me.”
Si voltò di scatto, ma non c’era nessuno. Solo il buio e l’estate, densa e viva come un respiro trattenuto.